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RETRO
SPECCHIO

 

ARCHEOLOGIA E ATTUALITÀ
IN MOSTRA AL VITTORIANO
SUI COLLI ALBANI


Ospitata per un solo mese, fino al 13 febbraio, al Vittoriano di Roma, la mostra «Colli Albani. Protagonisti e luoghi della ricerca archeologica dell’800» vuole mettere in luce, sostengono gli addetti ai lavori, «non solo i siti e i reperti di tanti decenni di scavi che hanno interessato i Colli Albani, ma gli archeologi stessi, la loro formazione e il loro metodo di ricerca», compresi i numerosi studi svolti nell’area dei Castelli Romani.
Promossa con il patrocinio della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Lazio e l’apporto della Soprintendente stessa Marina Sapelli Ragni che ha scritto l’introduzione del catalogo, e con la collaborazione del Comune di Monte Porzio Catone e della Galleria Theodora Frascati, l’esposizione è articolata in due sezioni. La prima è dedicata ai protagonisti della ricerca archeologica del XIX secolo ed è arricchita da materiali illustrativi dell’epoca e documenti d’archivio; la seconda ai siti archeologici dei Colli Albani studiati da quegli studiosi e ad alcuni reperti provenienti dagli stessi.
Si tratta dei principali archeologi e topografi dell’epoca: Antonio Nibby, Luigi Canina, Pietro Rosa, Giovan Battista de Rossi, Rodolfo Lanciani, Giuseppe Tomassetti. Scrive la Soprintendente per i Beni Archeologici del Lazio che «il territorio compreso nei Colli Albani presenta una ricchezza di valenze archeologiche e storiche tale da non potersi ritenere mai esaustivo in nessun volume».
E parla dell’attività degli archeologi di oggi, consistente in aggiornamenti dei dati conosciuti, nuove scoperte archeologiche, più attente ricognizioni sul terreno, rilettura di precedenti rinvenimenti, lavoro sui reperti dei magazzini, analisi permesse da nuove tecnologie. Insomma, «tutti gli elementi su cui si basa il progredire costante della scienza storica sono in questa regione così costantemente incrementati da rendere molto arduo per gli studiosi il dominio delle conoscenze».
Purtroppo non sempre è stato ed è così. Ci sono stati casi di associazioni culturali, se non proprio ostacolate dalla Soprintendenza, quantomeno bloccate con il sequestro e l’occultamento, in depositi proibiti al pubblico, di ingenti quantitativi di ritrovamenti da esse legittimamente compiuti e destinati a Musei comunali. Materiali, secondo voci ricorrenti, affidati recentemente ad istituzioni diverse sulla base di una gestione «politica» o «personalistica» anziché «istituzionale». E di interpretazioni «corporative» delle norme sulla tutela dei beni archeologici suscettibili di perplessità sull’operato della struttura, in tempi in cui inchieste giornalistiche andrebbero svolte non solo sulla «casta politica», ma soprattutto su quella casta burocratica che ritiene l’archeologia un feudo personale.
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